Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo un articolo dell’architetto Giuseppe Raimondo apparso sulla Rivista Chiaia Magazine (Giugno/Luglio 2021). Giuseppe Raimondo invoca un ritorno alla progettazione e alla pianificazione per promuovere un nuovo modello di cura della città che punti concretamente alla decarbonizzazione e che allo stesso tempo restituisca nella semplicità il buon vivere quotidiano.
E’ inevitabile pensare che questo momento storico si presenti come uno spartiacque, una linea di crinale sulla quale è possibile trasformare un problema che ci ha investito in pieno, in una possibilità concreta di sviluppo e in una necessità per chi utilizza gli ambienti naturali trasformati dall’uomo, ovvero le nostre amate città. Esse sono fatte di organismi complessi, con interazioni sempre più difficili da gestire e che necessitano sempre più di reali processi semplificativi.
Credo che uno degli atteggiamenti più costruttivi per superare indenni questa pandemia sia quello di essere positivi e di vedere il bicchiere mezzo pieno. Negli ultimi anni, in cui la vita si è fatta sempre più frenetica in nome e per conto esclusivamente del nostro modello economico, mai abbiamo avuto tanto tempo per riflettere in maniera costruttiva su quali siano stati gli errori perpetrati nel passato e come tracciare una reale rotta di cambiamento per il futuro, ma non intendo quello lontano ma quello più immediato.
Durante la mia carriera ho sentito spesso parlare di ultimatum per il modello città e dei suoi paradigmi di sviluppo, ma quello che si pensava giusto 12 mesi fa è stato rimesso completamente in dubbio da nuove problematiche. Abbiamo il dovere di farlo perché abbiamo passato interi decenni a specchiarci nelle nostre convinzioni e nel nostro benessere, lamentandoci troppo anche quando le cose andavano meravigliosamente bene, adagiandoci sul progresso e non pensando troppo a come poteva essere il futuro oltre un palmo dal nostro naso. Abbiamo il dovere di farlo se non vogliamo essere ricordati come la generazione più egoista della storia, se consideriamo che il modello capitalistico è crollato nelle sue intenzioni più nobili in quanto non rappresenta più la possibilità per tutti di realizzarsi ma, permette nella maggior parte dei casi a soggetti di arricchirsi a discapito di altri e soprattutto, perché nel pieno dell’era che stiamo vivendo ovvero quella dell’antropocene, il 10 dicembre scorso è arrivata la conferma che la Terra è artificiale. Si, avete capito bene il nostro magnifico Eden è artificiale. Secondo la ricerca israeliana pubblicata sulla rivista internazionale Nature, nel 2020, il peso dei manufatti artificiali ha superato quello degli esseri viventi e il dato che più deve far riflettere è che la plastica pesa il doppio degli animali, 8 miliardi contro 4.
Alla luce di questa notizia mi sembra ovvio che il costruito e quello che si costruirà, deve essere concepito con un approccio culturale completamente differente soprattutto rispetto alla natura che ci circonda. Il modello fin qui adottato, e mi riferisco allo sviluppo compulsivo delle metropoli e supermetropoli contemporanee, ha da sempre tentato di controllare la natura come parte del mondo artificiale rimandando da decenni al famoso concetto di sviluppo sostenibile, cioè quel modello di crescita proiettato a qualche decennio basato su tecnologie talvolta discutibili e comunque insostenibili in quanto come obiettivo finale hanno sempre quello del profitto. Quindi, sulla scorta di queste riflessioni credo che il termine “futuro sostenibile” sia solo una scusa per cercare di rimandare il problema ambiente sulle generazioni successive senza mai risolverlo definitivamente.
La pandemia in corso, ci ha fatto capire chiaramente che i modelli che (continuiamo) a perseguire sono completamente sbagliati perché non abbiamo una visione complessiva e integrale delle risorse naturali a nostra disposizione. Dobbiamo smettere di pensare che la natura si possa controllare come parte del mondo artificiale, ma essa cambia con il trascorrere delle stagioni e del tempo e questa qualità deve entrare a farne parte nelle nostre visioni, dei nostri progetti e nei nostri stili di vita.
Mi domando, perché abbiamo smesso di fare le manutenzioni più semplici alle strade di quartiere, alle aree boschive e tutte quelle componenti del sistema urbano che vanno in difficoltà o che vengono annullate quando ci sono le ormai più frequenti bombe d’acqua? Perché pensiamo che un pannello di silice o un cappotto termico costituito da polimeri e materiali difficilmente smaltibili possano risolvere il problema del riscaldamento globale? La realtà è che tutti questi paradigmi introdotti nei decenni scorsi, non hanno fatto altro che abusare del termine di sostenibilità che di fatto oggi non si sa più cosa sia in nome e per conto del prodotto interno lordo. Per vivere in armonia con la natura che ci circonda non dovremmo far altro che “progettare”, “pianificare”, prenderci cura di ciò che ci circonda. La buona pratica della progettazione e della pianificazione ci permetterebbe di creare edifici passivi che, attraverso la corretta esposizione e l’utilizzo di materiali locali e degradabili nel tempo, nell’immediato siano in grado di darci risposte concrete in termini di sostenibilità e vivibilità degli ambienti progettati. Dobbiamo realizzare architetture che, attraverso un processo di realizzazione e dismissione di CO2 prossimo allo zero, abbattano alla fonte l’inquinamento di una filiera da sempre energivora. Questo è il “presente sostenibile”, un modello immediato, concreto, alla portata di mano e che rappresenta l’unico modello di sviluppo equo e democratico.
Per fare questo è necessario perseguire e premiare la qualità nella progettazione che ad oggi si riduce a sprecare risorse di tempo e intellettuali, nell’evitabile gincana burocratica di misure e incentivi che non hanno mai alcuna visione organica e di qualità. Visioni appunto, bramiamo idee di città belle ed efficienti da vivere non da domani, ma da oggi.
di Giuseppe Raimondo